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Arrampicarsi con questi cosi alle braccia non è stato facile, lo garantisco.

Ma ce l’ho fatta, ed ho portato con me metri di stoffa per aiutarmi nell’impresa. E’ stato proprio come nel sogno. Mi addormentai senza di te e mi svegliai sapendo che ti avrei avuto per sempre al mio fianco.

Iniziammo a camminare una gelida notte di dicembre, stelle di ghiaccio costellavano il nostro percorso. Tu all’inizio non dicevi una parola. Mi lasciavi parlare per ore senza rispondere, ma sapevo che mi ascoltavi. Poi cominciasti ad interrompere i miei monologhi e capì che quanto mi aspettava sarebbe stato duro e impervio, come la conquista del tuo affetto. Le tue rare parole erano più affiliate delle lame che pendevano dai nostri fianchi. Non c’era pietà nella tua anima, nè un accenno di comprensione nel tuo intelletto. Il tuo volto era più nero dell’oscurità che ci avvolgeva, il tuo sguardo freddo come il vento che spazzava via le nostre orme dalla terra e la poesia dal tuo cuore. A tratti pareva sfuggirmi il senso di questa impresa impossibile. Credevo mi avresti abbandonato da un momento all’altro e, in effetti, più volte tentammo di scivolare silenziosamente via l’uno dall’altra. Tuttavia sapevamo che non sarebbe stato possibile sciogliere il nostro giuramento, la promessa implicita che ci eravamo scambiati parlando delle nostre armi.

Quel giorno mi presentai a te, e ti chiesi di poterti seguire. Indossavo un copricapo e mi trascinavo dietro una matassa di stracci che all’occorrenza trasformavo in soprabito. Farneticai di gradi di separazione e connessioni universali, ed iniziai così a lavorarti i fianchi. Tu mi respingevi, vanificando ogni accennato tentativo di approccio. Il nostro sarebbe stato uno scambio ma tu non potevi credermi allora, mentre il tempo lavorava ancora a nostra insaputa. Iniziasti a prenderti gioco di me, a tenermi al passo, come un cane al guinzaglio senza posibilità di replica.

“Ti porterò con me, ma dovrai indossare tutti i tuoi stracci”. Era una pretesa ridicola ma ti accontentai; non avevo paura della mia zavorra. Ti sfidavo con lo sguardo mentre mi spogliai di tutto quello che avevo indosso, per poi ricompormi in un malinconico patchwork.

Sapevo che il mio corpo acerbo non ti faceva nessun effetto. Era evidente la sufficienza del tuo sguardo al cospetto delle mie forme androgine. Ero ferita ma non te lo lasciai vedere, perchè presagivo che quello che si celava dietro la nudità, prima o poi, ti avrebbe incantato. Mentre mi spogliavo non distolsi gli occhi dai tuoi nemmeno per un secondo. Abbassai lo sguardo solo per sistemare la mia uniforme posticcia. Per ultimo avvolsi due sciarpe intorno agli avambracci, poi ce ne andammo.

“Stai attenta a non tagliarti, è pericoloso”. Non facevi che ripetermelo mentre cercavamo tra i boschi una scorciatoia all’inevitabile. Io non volevo lasciarti fare, ma capivo cosa stavi cercando di insegnarmi. La mia fretta ti indispettiva. A volte ti odiavo, anche se sapevo che non si trattava di quello. Semplicemente non potevo accettare la tua incostanza. Sentivo che c’eri, ma non era abbastanza. Ti davi con parsimonia, dosando i tempi, le parole, le emozioni. Stringevi il giogo, e mi domavi come fossi un cavallo imbizzarrito. Avrei voluto mettermi a scalpitare, poi a correre per costringerti a seguirmi. Avrei voluto che gli eventi precipitassero e che qualcosa ti avesse costretto a raggiungermi di slancio. Ma ogni tua parola pesava sui miei penieri come un macigno, ed avevo giurato che non avrei mai tradito il nostro patto: sarei stata alle tue condizioni, per dimostrarti di essere all’altezza della nostra missione.

Percorremmo infinite lande di erba odorosa ed attraversammo scure foreste di conifere. A volte ti fermavi all’improvviso ai piedi di qualche arbusto, ti raccoglievi in te stesso e mi lasciavi in attesa. Rispettavo il tuo silenzio, sapendo che non avresti tollerato alcuna intrusione. Ti guardavo nel buio; seguivo il tuo sguardo penetrante tra le foglie e percorrevo con gli occhi i lineamenti del tuo volto, cercando la trama dei tuoi pensieri. Più mi concentravo su di te e più mi sembrava di rimpicciolire; il mio corpo si faceva tanto più piccolo quanto più la tua fisicità invadeva la mia mente. Bramavo la tua carne, volevo leggere i tuoi segreti nelle rughe del tue volto e dalle cicatrici sulle tue splendide mani. Ma non osavo avvicinarmi troppo. E non ti avrei mai toccato di mia iniziativa: faceva parte del giuramento.

Solo una notte mi permettesti di dormire sul tuo petto. Riposammo in una baita, dove tutto sembrava fin troppo familiare. Eravamo stanchi ma sereni ed era come se una placida evidenza ci autorizzasse a scioglierci per un momento nella dolcezza. Il mattino seguente, mentre il nostro nido si inondava di luce, mi mostrasti i disegni sul tuo corpo. Mi parlasti di loro, e mi lasciasti intuire qualcosa del tuo passato. Fu dura rispettare il tuo segreto ma avevamo promesso: tra noi ci sarebbero state poche domande e, se la curiosità avesse fatto capolino, avremmo saputo dove ricacciarla. Le storie di quei tatuaggi sbiaditi sul tuo petto, aprivano la strada ad altrettanti misteri. Ed io non osavo chiedere oltre.

Il nostro contatto era fraterno, e non c’era bisogno di ulteriori parole. Sembrava ci conoscessimo da tempo immemore, nonostante fossimo solo all’inizio del nostro cammino. Riposi in te tutte le mie speranze; mi sbagliavo, perhè volasti via da me senza dirmi, allora, cosa avrei dovuto fare. Ricordo che una notte chiusi gli occhi, e quando li riaprì era già troppo tardi: tu non c’eri più. Mi alzai dal giaciglio ancora caldo e raggiunsi la finestra. Mi avevi insegnato a respirare e anche se in quel momento mi sembrava di soffocare, tentai ancora una volta di darti retta. Viddi uno stormo di piccioni disegnare trame nel cielo. Uno di loro scese fino a terra. Mi guardava con occhi stranamente vivi ed intelligenti. D’istinto lo raggunsi e scoprì che stava cercando di comunicare. Tra le foglie e I rami secchi, qualcosa luccicava. Era un tuo messaggio, era il tuo coltello. Per tagliare le mie carni, suppongo. Dopo aver lottato per avere solo vento. Dopo aver sfidato il tempo e la pazienza. Distrutto il desiderio, e imparato la violenza.

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