Panta Rhei, tutto scorre: il movimento è per sua natura inarrestabile. Possiamo presagirlo, contemplarlo mentre si compie; possiamo congelarlo in immagine statica, scomporlo in una serie infinitesimale di attimi in cui l’essere resta immobile, come sospeso tra ciò che è e quello che sarà, ma non possiamo fermarlo: il movimento è una caratteristica intrinseca dell’essere, un archè – cioè un principio imperituro ed immutabile che definisce l’essenza stessa dello stare al mondo. Sarà per questo che lo diamo per scontato e sarà per questo che l’uomo ha ambito a raccontarlo piuttosto che a comprenderlo – sebbene sia stato il grande cruccio dei pensatori della Grecia Antica, che si interrogavano sull’essenza del principio che governa la mutevolezza dell’essere e ridefinisce lo stato delle cose.
Ricercare il principio immanente e trascendentale che fonda la cifra delle nostre esistenze finite, è stata l’ambizione delle menti più ispirate della storia del pensiero, nonché il più incorreggibile vizio dell’arte. Durante il classicismo e fino all’alto medioevo il fine delle arti figurative era evocare il trascendente e rendere omaggio al moto divino, e per questo si elaborarono stilemi e linguaggi che tralasciavano volutamente la ricerca di un oggettivo realismo nelle immagini. Solo a partire dalla fine del duecento il mimetismo della realtà e la corposità della rappresentazione divennero temi di interesse primario, e si iniziarono a ricercare espedienti e procedimenti finalizzati a ottenere delle figurazioni corrispondenti alla percezione visiva dell’essere umano. Fino a quando tutto cambiò e una nuova trascendenza si impose alle coscienza dell’uomo moderno, artefice di un progresso a volte docile e familiare come un animale domestico, altre volte violento e imprevedibile come creatura selvaggia.
Pubblicato su Technogym, Lifestyle Issue