Quando Brian Callahan la licenziò, Denise sezionò se stessa e mise tutti i pezzi sul tavolo. Si raccontò la storia di una bambina nata in una famiglia così bramosa di una figlia che l’avrebbe mangiata viva se non fosse fuggita. Si raccontò la storia di una figia che, nell’ansia di fuggire, aveva accettato ogni rifugio temporaneo che era riuscita a trovare: una carriera come cuoca, un matrimonio con Emile Berger, una vita da vecchia a Philadelphia, una relazione con Robin Passafaro. Ma naturalmente quei rifugi, scelti frettolosamente, alla lunga non avevano funzionato. Cercando di proteggersi dalle brame della famiglia, la figlia veva ottenuto il risultato opposto. Aveva fatto in modo che, all’apice di quelle brame, la sua vita cadesse a pezzi, lasciandola senza marito, senza figli, senza lavoro, senza responsabilità, senza alcun tipo di difesa. Era come se, fin dal principio, Denise avesse cospirato per rendersi disponibile ad accudire i genitori. L’onere di ascoltare Enid e Alfred e di essere paziente e comprensiva, ricadeva in pieno sulle spalle della figlia. [..] E adesso era giunto il momento, secondo la storia che Denise si raccontava su se stessa, che lo chef si tagliasse in pezzi e li desse in pasto ai genitori affamati.
In mancanza di una storia migliore, per poco non ci credette davvero. L’unico problema era che non vi si riconosceva.
Se si metteva una camicia bianca, un tailleur grigio di foggia antiquata, un rossetto rosso fuoco e un cappellino nero con veletta, allora si riconosceva. Se indossava una canottiera bianca e un paio di jeans da uomo e si tirava indietro i capelli tanto da farsi male, si riconosceva. Se si metteva gioielli d’argento, un ombretto turchese, uno smalto livido, uno scamiciato rosa acceso e un paio di scarpe da tennis arancione, si riconosceva come una persona piena di vita e le mancava il fiato per la gioia di essere al mondo.
Jonathan Franzen – Le Correzioni
